A quell’ora della sera, la stazione della metropolitana sembrava un altro posto. Non c’era la gente che
correva su e giù per le scale in preda alla frenesia di una giornata colma di impegni; solo qualche coppietta
appartata a scambiarsi effusioni sottovoce; ragazzini di ritorno dal pomeriggio di shopping che avevano
dismesso il solito atteggiamento chiassoso e ciarliero in funzione di uno più pacato, quieto; genitori con
bambini addormentati fra le braccia; donne e uomini con i loro libri da leggere per farsi compagnia lungo la
strada del ritorno e l’aria stanca.
C’era silenzio, un silenzio quasi surreale. Sembrava che addirittura la voce gracchiante che annunciava i
treni avesse abbassato il tono, per non disturbare. I treni stessi sferragliavano sotto voce. La
luce penetrante e fredda dei neon sembrava essersi ammorbidita, infiochita. Una scala mobile cigolava
stancamente in qualche angolo della stazione. Di tanto in tanto un piccolo tonfo sordo ricordava che i
pannelli pubblicitari stavano cambiando l’immagine da mostrare.
Lui sorrise, sistemandosi meglio la bretella della custodia della chitarra in spalla, fermandosi un istante a
guardarsi intorno nel corridoio deserto. Le pareti imbrattate dai graffiti e da brandelli di locandine si
stavano riposando dopo aver visto e sentito passare la solita moltitudine variegata di gente per tutto il
giorno.
Era come trovarsi dentro un’enorme balena addormentata. O in uno di quei film nei quali il mondo è stato
devastato e ogni forma di vita annientata, e il protagonista si aggira per luoghi nei quali la vita è solo più
un ricordo richiamato alla mente da oggetti banali e di uso quotidiano, quegli oggetti ai quali di solito non si
fa caso e la cui vista, in un contesto del genere, fa quasi male.
Scosse la testa, riprendendo a sospingere la bicicletta per il manubrio. Era una vecchia Graziella, bianca e
rosa; la vernice era ormai scrostata e sporca, il campanello suonava come un grillo stanco e al cestino
mancavano diverse stecche, aveva dovuto rivestirlo con vecchi giornali per non perdere ciò che ci metteva
dentro … Non gli importava. E non gli importava nemmeno che non avesse un aspetto “da maschio”: era
fedele e robusta, nonostante gli anni e le intemperie. E gli piaceva sentire il rumore sommesso dei raggi che
girando gracchiavano sommessamente, come una raganella – lo strumento, non l’animale.
Gli bastavano lei, la chitarra, e il suo zaino – tutti e tre segnati dal tempo e dall’usura – per sentirsi libero.
La libertà era qualcosa di importante. Per lui era quella, la felicità. Per questo sorrideva sempre: sapeva di
essere un ragazzo fortunato.
Discese le scale con la bici in spalla, fino a raggiungere la piattaforma. Si soffermò a guardare un istante il
maxi schermo su cui stavano proiettando la pubblicità di un’agenzia di viaggi, quindi si diresse verso una
delle tante panchine in pietra verso l’imboccatura del tunnel.
In quel momento la vide. Lei era seduta in fondo alla banchina, da sola, le gambe accavallate, il busto
chinato in avanti ed i gomiti poggiati sul ginocchio, lo sguardo fisso sui binari. Era una figuretta minuta,
vestita di nero, che poteva passare inosservata anche in un luogo pressoché deserto come quello, per
quanto era immobile e piccola. Ma lui la notò. Era strana la sensazione che gli trasmetteva, come se lei
fosse stata circondata da una bolla d’aria resistente a qualsiasi attacco esterno.
Non avrebbe saputo spiegare per quale motivo, ma decise di andare a sedersi su quella stessa panchina.
Avanzò lentamente fino a lei, pronto a fermarsi e fare dietrofront nel caso la ragazza lo avesse guardato
inequivocabilmente con l’aria di chi non vuol esser disturbato; ma lei non lo guardò del tutto. Le passò
davanti, fino a che non raggiunse l’estremità opposta della banchina. Mise il cavalletto alla bici e guardò
ancora una volta la ragazza. Niente. Sembrava ipnotizzata dalle traversine … O da chissà cos’altro laggiù,
nella fossa dei binari. Si tolse dalle spalle lo zaino e la chitarra. Posò il primo sulla panchina e la seconda se
la mise in grembo, sedendosi di modo da poter guardare lei, di tre quarti, la spalla destra poggiata alla
parete.
Ad un tratto gli sembrò di capire. Era tutto frutto della sua immaginazione, forse. Ma quella ragazza
sembrava una marionetta vuota che attendeva un soffio di vita per muoversi.
La vita era musica. C’era musica nel ritmo sincopato delle giornate nevrotiche, c’era musica nel silenzio
sonnacchioso di una stazione della metro. C’era musica dentro di lui che attendeva solo di uscire, in quel
momento, solo per lei. Era musica che voleva esser suonata, senza pretesa di esser apprezzata, senza
richiesta di un qualcosa in cambio.
Era quel momento che era quasi perfetto per restare impresso nei ricordi, per sempre. Mancava solo una
cosa e quella cosa poteva mettercela lui.
Tirò fuori la chitarra dalla custodia che lasciò scivolare in terra. Socchiuse gli occhi. E cominciò a suonare,
lasciando che quella musica nuova e unica guidasse le sue dita sulle corde.
All’inizio furono soltanto note dolci, armoniche. Un suono che pur sottomesso sovrastava gli altri rumori.
Note che si rincorrevano e disegnavano invisibili tratti attorno a loro, avvolgendoli morbidamente, per un
tempo che non avrebbe saputo definire né quantificare.
E poi sentì arrivare le parole. La voce di lei, che si univa alla musica e poi ancora alla sua stessa voce. La
voce di lei … Ancora … Era una danzatrice che muoveva passi incerti e a volte rischiava di cadere, ma cui
bastava esser sorretta da lui per proseguire e farsi man mano più sicura. Solo sussurri in un angolo, solo
musica.
I loro sguardi si incrociarono. “Chi sei?” chiedevano i loro occhi, e trovavano risposta senza che dovessero
parlare: “Sono la musica per la tua voce” “Sono la voce per la tua musica”. Sorrisi increduli, appena
accennati. E ancora sguardi. E ancora musica.
La terra tremò lievemente e dal tunnel sopraggiunse l’aria gelida che spezzò quel momento. Il treno stava
arrivando. Lei si alzò, l’espressione ancora spaesata di chi abbia vissuto una forte emozione senza
comprenderne l’origine, senza crederla reale.
Lui avrebbe voluto chiederle di non andare, ma non parlò. Restò li a guardarla in silenzio, smettendo di
suonare.
Lei si voltò.
Gli sorrise.
E poi salì sul treno scomparendo oltre le porte.
Quella notte, per la prima volta, lui si sentì ricco: il suo patrimonio preziosissimo era quel sorriso, quella
manciata di minuti che avrebbe per sempre portato con sé.
Una grande enorme descrizione di un posto non solo fisico. Un luogo esteriore che diventa interiore con una musica di sottofondo. Delicato. Forse non proprio il nostro genere, ma di certo curato. Stelle…4
Il commento di chi non apprezza il genere è anche più gradito! Grazie mille per aver condiviso il vostro pensiero
Il racconto è ben scritto, riesco a rappresentarlo nella mia testa. La stazione vuota, le note che volano nell’aria… anche il finale, con quel sorriso. Da pendolare mi capita spesso di cercare sguardi e sorrisi nelle persone con cui divido parte della mia giornata e che probabilmente non rivedrò mai più. Bel lavoro @yume
Grazie, speravo di rendere proprio questa sensazione. Sono felice di sapere di esser riuscita a trasmettere il messaggio!