Erano passati mesi dall’incidente, la sua macchina accartocciata sulla statale era ormai solo un ricordo sbiadito ai più. Amici, familiari tutti così cortesi e accondiscendenti. Forse era la carrozzina a far compassione. Nessuno gli aveva dato un pugno in faccia. Perché è quello che avrebbe voluto ricevere, un pugno in quella faccia grassa e stupida. Perché lo era. A fare il coglione con la sua macchina. Non era lui la vittima. La madre della ragazza dell’altra macchina, sempre accartocciata sulla stessa statale, quella che aveva visto all’ultimo momento durante i suoi sorpassi, lei lo era. Entrambe lo erano. E forse lei avrebbe potuto. Ci aveva sperato, le sue mani tramavano, ma era troppo assuefatta dal dolore della perdita. Alla fine, se l’era dovuto dare da solo. Più di uno. Si guardava allo specchio fino a che la mano non grondò sangue dalle nocche. A chi chiedeva cosa fosse successo rispondeva che era caduto dalle scale. Banale. Neanche le aveva, le scale, la sua casa. E stava al piano terra. Era proprio stupido, non riusciva neanche a inventare delle balle decenti.
Un giorno, un suo amico gli regalò una macchina fotografica. “Che cazzo è?” gli aveva chiesto. E alla sua risposta che faceva le foto, lui rispose sempre con un “Che cazzo, grazie”. L’avrà capito il tono sarcastico? pensò. Andare a fare foto. Non aveva voglia di uscire, figuriamoci andare in giro a fare foto. Accanto al divano non seppe bene il motivo ma si ricordò di quell’episodio. Forse perché la camera era ancora lì, dove l’aveva buttata settimane fa, tra i cuscini giallo sbiadito.
La prese in mano, era una Kodak.
“Al diavolo” pensò. Se la mise tra le cosce e andò fuori. Scattò qualche foto tra i viottoli. Molta gente lo notò tra cui un piccolo moccioso con una mountain. Sgommò fermandosi a pochi centimetri da lui.
“Fai foto?”
“Scatto foto, sì” precisò.
“Fai vedere”
Porse tra le sue manine la Kodak: “Attento, però”
“Tranquillo”, il bambino strizzò un occhio per vedere dentro la camera con l’altro.
“Devi modificare qualcosa”
“Perché?”
“È esposta”
“E tu che cazzo ne sai?”
“Mio padre è fotografo”
Lo guardò. Sembrava immune ai suoi trattamenti insopportabili che molta gente gli aveva rinfacciato. Iniziarono a parlare. Si stupì di come un bambino potesse interessarlo. Si scambiarono i numeri e gli indirizzi. Scoprì di essere vicino a dove abitava, assieme al padre. Lui era spesso via per servizi fotografici e lui prendeva la bici per contrastare la solitudine. La madre era morta di parto. Gli fece tenerezza. Ci teneva a rivederlo e glielo disse. Così ogni giorno, dalle due del pomeriggio alle cinque e mezza di sera andavano in giro a fare foto. Lui lo seguiva con la bici e rallentava quando vedeva che sulla sedia, si sforzava troppo. Era sveglio. Ne sapeva di fotografia, con il suo aiuto le foto erano migliorate.
Sorrideva quando lo incontrava, con gioia scattava le foto, le sue preferite erano in bianco e nero. Cercava con minuziosa attenzione le strade, le persone, da fotografare. “Ogni foto deve essere un’espressione dei tuoi sentimenti, delle tue sensazioni” ripeteva il bambino. Era il padre ad averglielo detto. Iniziò a fotografare le persone del quartiere. Diventò amico con alcuni di loro. Usciva spesso a parlargli e li salutava quando passava con la sua carrozzina davanti alle case. Divenne conosciuto e apprezzato. Imprecava di meno, il suo tono divenne meno insofferente, i parenti e gli amici tornavano più spesso a trovarlo. Sorrideva di più. Quel bambino lo salvò. Da quel momento non si sentì più inutile. Lui era quello che faceva le foto.
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